martedì 15 settembre 2015

PIZ PITONE


È giovedì pomeriggio, e siamo di ritorno dal fallito tentativo di approdare all'isola di Favignana, isole Egadi. Poco male, penso tra me e me, ho l'ennesima scusa per dover tornare in Sicilia, come se servissero sempre delle scuse per tornare nei posti belli. La comitiva ha scelto di fare tappa alla spiaggia più bella d'Italia 2015, la spiaggia del Bue Marino. Anna ci tiene molto, e ce lo ha fatto capire in vari modi e in più occasioni, così i ragazzi non possono che assecondare i desideri dell'unica donna della ciurma, se non altro per evitare rinfacciamenti nei secoli a venire. Amen. E Bue sia.







Ma nel momento in cui l'hanycbus prende posto nel parcheggio sterrato fronte mare, io prendo del tutto consapevolezza del richiamo della montagna. Spalle al Tirreno, una bassa catena montuosa si estende gentile ma dominante da Nord a Sud. L'abbiamo subito vista iniziare violenta arrivando a San Vito Lo Capo, sventrata nella sua facciata meridionale dalle cave marmoree, dalle quali l'uomo estrae da tempo cubi di roccia purissima per decorare case e piastrellare pavimenti pregiati in giro nel mondo. Pochi sapranno che tali formazioni si sono formate nel corso di intere Ere Geologiche, a profondità impensabili e sotto l'azione di pressioni e temperature che lentamente spremerono fuori dal marmo inclusioni e impurità. L'eterna pazienza di Madre Natura. A Nord la catena termina strapiombante quasi esattamente fronte campeggio, regalando un caldo riverbero arancione rosaceo all'ora del tramonto. Osservo queste sinuosita' fin dal primo momento in cui le ho viste, ed è questo il motivo per cui non posso andarmene da qui senza averle visitate da vicino. Lo devo fare ora, e lo devo fare possibilmente da solo. Nessuno raccoglie il mio vago invito a un' esplorazione into the wild, forse i bagai pensano stia scherzando; strano, perché in questa vacanza sinora ho scherzato veramente poco, mostrando esclusivamente il lato più serio di me (...). Fa niente. Sotto raccomandazione di mamma Anna sostituisco sandali con scarpe da ginna e mi addentro nell'abitato di Macari, dove attraverso una serie di villette e B&B fino a raggiungere la sommità della frazione. Non so bene dove andrò, quanto ci metterò e da dove tornerò, perché ho deciso che lascerò scegliere alla pancia il da farsi, utilissimo esercizio di sensi per individui pensanti calcolanti. L'esperienza maturata in gioventù mi obbliga comunque istintivamente ad un rapido check della strumentazione di bordo: cappello, celo, occhiale, celo, telefono, 20% di carica, mettere offline. Acqua, non celo, devio verso il primo bar a fare lauto rifornimento, anche perché dubito di trovarne in mezzo a quelle sterpaglie prosciugate dal sole mediterraneo di agosto. Un'ultima tappa per liberarmi dei pesi biologici e poi via, si parte.
Scelgo di agganciare una strada sterrata, che subito si perde nella vegetazione. Procedo a vista tra tracce di percorsi, e supero le reti metalliche antifrana che proteggono a doppia fila l'abitato da probabili cadute massi. Dal basso verso l'alto si notano numerosi muretti a secco, costruzioni tipiche e diffusissime in tutta l'isola, forse in tutto il Sud Italia. Immagino che in breve raggiungeró un qualche percorso battuto, sebbene ne qui ne in paese abbia avvistato alcun segnale di sentieristica locale. Avanzo tra tracce di passaggi e sentierini, senza troppa difficoltà visto il carattere basso e rado della vegetazione, che si presenta sotto forma di folti ciuffi secchi piantati in zolle di terreno arido e compatto. Al tempo stesso, la salita è ostacolata dal basso grip che la terra offre alle mie Adidas e dai cardi spinosi che devo evitare per non grattuggiare le mie belle gambine abbronzate (cosa direbbero le mie amiche al rientro??). Il pendio sale piuttosto rapidamente e mi porta in breve tempo a un'altezza dalla quale la visuale inizia ad allargarsi su tutto il golfo. Decido di proseguire tenendomi sul crinale che fa da piccolo spartiacque tra due micro valli. Mi accorgo che quello che da sotto sembrava un sentiero zigzagante continua in realtà ad essere niente più che un groviglio di tracce e murettini. Quello che basta per proseguire.


 Mentre avanzo, sulla mia sinistra (lato Nord) si stagliano delle corpose paretine verticali, raggiunte alle loro basi da qualche strada sterrata carrozzabile (almeno all'apparenza). Sulla destra l'altezza rende d'un tratto visibile uno spiazzo lavorato, giardinizzato e raggiungibile da un'altra sterrata. Decido che quando ne avrò a sufficienza scenderò da quel versante lungo la strada. Continuo il mio percorso fai da te, spalle a un sole tardo pomeridiano, che non ustiona ma scalda abbondantemente la mia schiena. È solo in questi momenti che si capisce quanto importante sia una buona scorta di liquidi. Improvvisamente, dopo circa 45 minuti di salita, una piccola fascia di rocce taglia orizzontalmente la montagna. Mi accingo a superarla senza fatica, impensierito solamente dell'eventuale presenza di vipere. In questa circostanza è l'unico serio imprevisto che penso possa capitarmi e, in caso di sfortunato morso, mi rendo conto che non saprei bene come comportarmi. Risolvo la questione semplicemente pensando che non accadrà, sospinto dall' adrenalina che sento crescermi dentro passo dopo passo. Sto andando a conquistare una montagna, sicuramente già raggiunta enne volte dagli autoctoni del luogo, anche se la totale assenza di esseri umani non sembra confermare la loro passione per l'escursionismo. Del resto, quando uno ha la plaja over the top 2015 a portata di culo, perché mai dovrebbe pensare di venire a soffrire in mezzo a queste sterpaglie? Non lo saprò mai con certezza, ma sento che io, e anche piuttosto spesso, lo farei. E ora lo sto facendo con adrenalina, come dicevo, perché l'assenza di persone e di sentieri mi fa sentire il primo ad arrivarci, mi fa sentire unico, e mi comunica incertezza e precarietà, mi getta nel dubbio e io mi lascio cullare dai miei passi attraverso questo dubbio, attraverso il senso dell'ignoto che caratterizza poi tutta la nostra esistenza, e che la montagna, e la natura in generale, sanno facilmente risvegliare in chi le si abbandona.
Scavallo la fascia rocciosa e mi accorgo che per giungere in cima c'è ancora una buona mezz'ora di cammino. Ma ormai ho deciso, e mi inerpico per raggiungerla. Una volta arrivatovi, lentamente la salgo e improvvisamente la visuale si apre sul golfo di Scopello e sulla Riserva degli Zingari. Sono emozionato. Mi volto e l'emozione sale: da qui domino la valle e la piana sottostante, che si estende fino al monte Cofano. Più indietro, in secondo piano, Erice svetta in cima al suo colle. Dietro ancora, le Egadi mi salutano immerse nella foschia del tramonto imminente. Alla loro sinistra, le saline di Trapani sudano acqua marina, fino a quando non rimarrà che sale bianco per le nostre pentole. Infine, la costa curva fino a Marsala, dove saluto con riverenza la Cantina Pellegrino, che aggiungo alle innumerevoli eccellenze enogastronomiche del Paese. Guardo il mare a nord, dalla costa all'orizzonte, e mi accorgo ulteriormente dell'abbondanza che c'è in natura, e mi domando come sia possibile che l'uomo abbia ormai contaminato così tanto il Pianeta. 







Da qui si vede ancor meglio che la cimetta su cui sono fa parte di una catena che prosegue fino a San Vito. Sarebbe molto bello poterci spendere un'intera giornata e percorrerla da parte a parte, magari fantasticando di tracciarvi l' "Alta" Via Nord della Trinacria. Sicuramente l'alba da quassù dev'essere un evento sacro, e mi piace pensare che col sole alle spalle si possa davvero riuscire a scorgere la costa tunisina, inizio di un nuovo continente. 
Due selfie d'obbligo e una chiamata di avviso ai bagai, poi scendo la cresta fino in forcella, dalla quale mi rendo conto che per raggiungere la carrozzabile dovrei tagliare una buona parte di pendio sdrucciolevole e scomodo.



E allora chi me la fa fare, se ho invece la possibilità di cacciarmi nei guai scendendo dal versante opposto, verso la Riserva, seguendo la comoda sterrata che vi si adagia in semplici tornanti. I giri in montagna si dividono in due categorie: quelli che prevedono il ritorno per la via d'andata, e quelli che prevedono un Giro. Inutile dire che ho sempre preferito i secondi, per innumerevoli motivi, che penso possiate tutti immaginare e probabilmente condividere. Mentre penso a questo mi ritrovo già a correre sulla carreggiata, che si prospetta totalmente in ombra. Qui il Sola tornerà solo domattina, per inaugurare un nuovo giorno, con una nuova alba. Mi sento di nuovo gasato, perché scendendo dal versante opposto dovrò raggiungere il campeggio a piedi, e questo è un fuori programma e i fuori programma creano scompiglio e avventura. D'improvviso penso che mi sto esaltando con molto poco, ma chissenefotte. È sempre una buona occasione per ricominciare a provare a qualcosa, che l'unico pericolo che senti veramente, è quello di non riuscire più a sentire niente. In mezzora sono al termine della sterrata, che finisce in una proprietà privata: una stalla in cemento armato DESERTA e semibruciacchiata, un ambient perfetto per un film dell'orrore. Scavalco senza pensarci troppo e sono sulla strada asfaltata che collega la riserva col paese. Stimo di dover camminare un'ora circa per raggiungere il camping. Che palle. Decido allora di fare quello che penso da quando ero in forcella e che mai in trent'anni di vita ho fatto da solo, all'imbrunire, su una strada sconosciuta. In Sicilia. Mi domando che faccia dovrei fare per convincere le persone a raccogliermi dell'asfalto e portarmi a "casa", visto che non sono nemmeno una donna. Presto detto: la faccia del bravo ragazzo. Non proprio subito, ma dopo un po' funziona. Auto piene di persone o abbastanza malfidenti o indifferenti passano oltre, finché arriva il turno del Buon Samaritano, che stavolta si presenta nelle vesti di una famigliola del centro Italia, a cavallo di una Volvo rosso fuoco. 
Cinque minuti dopo, quando salutandoli varco la soglia del campeggio La Pineta, mi sento Indiana Jones di ritorno dal tempio maledetto. Sorrido dentro, mi sono divertito.


ENRICO

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